“Kafka sulla spiaggia" di Murakami Haruki

Tamura Kafka, all’età di quindici anni, decide di scappare di casa, diretto verso sud. Inizia così la sua fuga verso la scoperta della parte più autentica di sé, verso l’essere completamente sé stesso.
Quando inizia la sua fuga, Tamura Kafka è un ragazzo che vive circondato da un solido muro impenetrabile di difese, fatto di paura e rabbia, che nasconde una parte ghiacciata. Il suo obiettivo è quello di rinforzarsi, attraverso un costante allenamento del proprio corpo, per evitare che quel muro vada in frantumi, per evitare la confusione che ne deriverebbe. Questo è il suo rifugio di sempre, difeso da una solida serratura, che rinforza giorno dopo giorno temprando il proprio corpo con l’allenamento.
In questo suo viaggio, si domanda più volte se stia facendo la cosa giusta. Si sente finalmente libero, ma si interroga sul significato di questa parola, se essere liberi significhi sentirsi senza bussola e senza mappa. Confusi. Che è esattamente la sensazione che ha sempre cercato di evitare. Forse perché è proprio la sensazione che lo ha sempre inseguito, e più cerca di allontanarsene e più la sente vivida.
Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l’andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra col dio della morte prima dell’alba. Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. E’ qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu.
Tamura Kafka all’età di quattro anni è stato abbandonato dalla madre, che si è portata con sé la sorella lasciando il piccolo Tamura solo con il padre. Questo abbandono, questa sensazione di non essere amato, di essere rifiutato senza riuscire a comprenderne la ragione, è ciò che non gli permette di dare un senso alla propria vita, per la quale si trova a lottare disperatamente senza capirne il motivo.
In questo suo viaggio raggiunge la biblioteca Komura, nel sud del Giappone, e lì incontra Oshima, un ermafrodita in bilico tra il sentirsi un maschio e il sentirsi una donna, e la signora Saeki, proprietaria della biblioteca dal passato misterioso.
Oshima funge da inconsapevole guida spirituale per Tamura Kafka, e tra i due nasce un rapporto di intima sincerità. Tamura Kafka comprende, attraverso Oshima, che ciò che sta dentro e ciò che sta fuori sono l’uno lo specchio dell’altro. Che perdersi in un labirinto, o in una foresta, apre le porte alla conoscenza di ciò che si ha dentro.
In questo luogo sospeso nel tempo, Tamura Kafka scoprirà chi è veramente.
Il suo destino si incrocerà con quello di Nakata, anziano signore in fuga da un omicidio e che si crede stupido dopo un incidente avuto all’età di nove anni ma che sa parlare con i gatti, e Hoshino, giovane camionista dalla vita semplice e spensierata che cambierà drasticamente dopo l’incontro con l’anziano signore. I due affronteranno un viaggio che li porterà dritti alla biblioteca Komura per fare ciò che va fatto. Nakata è un uomo di una semplicità disarmante, che nel decidere della propria vita non si affida all’intelletto logico-razionale, ma alle proprie sensazioni, utilizzandole come nuova ed efficace fonte di conoscenza. Una sorta di consapevolezza intuitiva.
"Meditazione può significare moltissime cose, è una parola che include ogni tipo di pratica mentale, buona o cattiva. Ma quando io uso questa parola, la uso più che altro con il significato di centrarsi, sistemarsi o riposare nel centro. L'unico modo in cui lo si può fare, in realtà, non è mettersi a pensare o analizzare; occorre aver fiducia in un semplice gesto di attenzione, di consapevolezza. È così semplice e così diretto che la nostra mente complicata entra in confusione"
Queste parole sono di Ajahn Sumedho, monaco buddhista statunitense. Le usa per descrivere una forma di conoscenza diversa da quella che siamo abituati a utilizzare. Ed è la forma di conoscenza che usa Nakata, che non è stupido: conosce per altre vie. Sarà infatti Nakata a fare le cose giuste al momento giusto per permettere a Tamura Kafka di conoscersi e guardarsi dentro. E Hoshino, che ragiona in maniera logico-razionale, rimane sempre confuso di fronte alle scelte apparentemente casuali di Nakata, che assume per lui le sembianze di una sorta di buddha contemporaneo, che lascia confusi e spiazzati eppure ispira calma e fiducia.
Il nonno di Murakami era monaco buddhista e il padre ereditò il ruolo di priore del tempio. Credo che ciò sia molto visibile nel modo in cui Murakami disegna il personaggio di Nakata.
C’è una dimensione onirica che a tratti lascia perplessi, sospesi e confusi. Incerti. Ma proprio in questa dimensione chiunque può ritrovare e riconoscere qualcosa di sé. Inutile però avvicinarsi a Murakami con la logica razionale della nostra epoca, che è poi quello che cerca di fare Hoshino con Nakata. Non se ne caverebbe un ragno dal buco. A Murakami bisogna accostarsi con quella apertura senza difese che può fare incazzare, e anche tanto. Che può spiazzare, sconvolgere. Quell’atteggiamento di apertura con il quale Tamura Kafka si dispone ad entrare nella foresta, potente metafora del suo viaggio interiore, abbandonando tutte le proprie certezze (uno zaino, una bussola e una bombola spray per segnare le cortecce degli alberi della foresta per poter ritrovare la strada). In questo percorso bisogna entrarci disarmati, indifesi, nudi delle nostre inutili certezze, avendo fiducia in quel che arriverà. E qualcosa arriverà.
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