
Philip Roth - "Nemesi"
Bucky Cantor, giovane ventitreenne, lavora in un campo estivo nel quartiere ebraico di Weequahic, a Newark, città in cui Philip Roth anima le vite di molti dei suoi personaggi. Mr Cantor è un punto di riferimento per il quartiere, per i suoi ragazzi e per le loro famiglie. Un uomo fatto e finito, solido nelle sue convinzioni e nelle proprie responsabilità, dedito al dovere e all’educazione dei giovani. Insegna educazione fisica, e tramite questa disciplina vuole insegnare la durezza e la determinazione.
A essere fisicamente coraggiosi e fisicamente in forma.
A non lasciarsi mettere i piedi in testa o svillaneggiare da chi diceva che gli ebrei, solo perché sapevano usare il cervello, erano delle checche e dei rammolliti.
Innamorato di Marcia Steinberg, Bucky Cantor vive con lei l’amore spensierato e appassionato della giovinezza. La sua è un’estate di crescita, di entusiasmo, di impegno convinto in una progettualità. Un’estate di gioco, che “per l’adulto è ricreazione, rinnovamento della vita; il gioco per l’infante è crescita, conquista della vita”. Un connubio perfetto. Una perfezione che, quando giunge al suo culmine e sembra procedere dritta e lineare senza ostacoli, proprio in quel momento questa perfezione viene spezzata dall’epidemia di polio. Che uccide. Cosa abbia che fare la parola morte con il gioco, l’entusiasmo, la progettualità, la vitalità dei suoi bambini e ragazzini, Mr Cantor se lo domanda ripetutamente, senza mai riuscire a darsi una risposta.
“Fai solo la cosa giusta, la cosa giusta e la cosa giusta e la cosa giusta. Mille volte la cosa giusta. Cerchi di essere oculato, di essere ragionevole, di essere premuroso. E poi succede questo. Qual è allora il senso della vita?”, gli chiede la mamma di uno dei bambini colpiti dalla polio. Volete sapere cosa risponde Bucky Cantor? “A quanto pare non c’è”.
Nemesi come giustizia riparativa e compensativa? Ma di cosa?
Nemesi come giustizia punitiva? Ma di cosa?
Il bello di Roth è che pone tante domande, senza dare quasi mai risposte.
Perché non le ha.
Perché ognuno deve trovare le proprie da sé.
Bucky Cantor troverà le sue risposte sulla propria pelle, e questa non è una metafora. Le troverà sul proprio corpo mutilato per sempre dalla polio. E le troverà anche nella propria anima, anch’essa per sempre mutilata dalla polio. E’ su questo terreno che Bucky Cantor decide di perdere. Il senso della vita non c’è, perché lui non lo trova. Nemmeno lo cerca, a dire il vero. Una volta mutilato nel corpo, Bucky Cantor si ferma, rimane lì dove la malattia lo ha colpito. Non ha la forza di ripartire. E davvero spiazzante è il confronto che avviene molti anni dopo con uno dei suoi bambini, ormai adulto, anch’egli colpito dalla polio. Ma le reazioni di Bucky Cantor e di Arnie Mesnikoff alla malattia e alle sue conseguenze, le loro reazioni a tutto ciò che sconvolge gli equilibri, che è imprevedibile, che non è sicuro, che angoscia, sono diametralmente opposte. Arnie continua nella sua progettualità, diversa forse da quella che avrebbe costruito se non fosse giunto l’imprevedibile, ma comunque progettualità che si dispiega nel tempo con le forze che ha a disposizione. Bucky Cantor resta bloccato, si chiude in sé stesso, respinge tutti coloro che vorrebbero stargli accanto, per non mostrarsi. Soccombe alla propria vergogna, cercando in Dio e nella sua meschina falsità il colpevole.
I momenti di difficoltà lasciano emergere cose di noi che nemmeno riusciamo a immaginare. Cose di noi che forse non vogliamo vedere. In quei momenti capiamo chi siamo davvero e di cosa siamo capaci, scopriamo i nostri limiti e le nostre debolezze, così come le nostre qualità e capacità. I momenti difficili ci restituiscono l'immagine più umana e autentica di ciò che siamo, rimandandoci alle nostre inevitabili contraddizioni.
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