
"Le nostre anime di notte" di Kent Haruf
Non conoscevo Kent Haruf. Ad essere onesto, ne ho sentito parlare per la prima volta a un gruppo di lettura al quale partecipo. Una trentina di persone, quasi esclusivamente donne, la più giovane delle quali ha almeno quindici anni più di me. Non si può dire che mi ci senta propriamente a mio agio. Ma le discussioni sono spesso interessanti, e questo mi riconduce in quella stanza ogni primo martedì del mese. Così, quando al primo incontro è stato proposto “Le nostre anime di notte” di Kent Haruf, ho pensato al solito libro strappalacrime. Mi rendo conto della saccenteria e dell’ignoranza di un giudizio sorto senza avere la minima idea di cosa si stesse parlando.
Ad ogni modo, ho messo da parte il giudizio, ho comprato il libro e l’ho letto.
L’incipit è sui generis: Addie bussa alla porta della casa di Louis, suo vecchio conoscente, e gli propone di passare le notti insieme, per colmare quel senso di vuoto e solitudine che da qualche anno - dopo le rispettive vedovanze, ormai anziani - li soffoca e li svuota. E instaurano una relazione, difficilmente definibile e per ciò stesso affascinante, che mandano avanti nonostante gli sguardi e i giudizi degli abitanti di quel buco di paesino, che li osteggiano, non li capiscono, non riescono a inquadrarli. Un pò come Coleman Silk e Faunia ne “La macchia umana” di Philip Roth. E proprio come Coleman e Faunia, Addie e Louis decidono di passeggiare per le vie centrali e sedersi in un caffè di fronte a tutti, per legittimare con forza la propria scelta.
E’ una storia di tenerezza e intimità, in cui si inseriscono in maniera apparentemente delicata, ma in realtà prorompente, alcuni personaggi di importanza vitale. La vicina Ruth, il nipote di Addie e i rispettivi figli di Addie e Louis, in un intreccio di intenzioni e vissuti appena accennati, quanto basta per farne percepire la forza, l’intensità e - forse - anche una loro certa rigidità.
O inappellabilità. Dipende dai punti di vista.
La storia si conclude quando il figlio di Addie le pone un aut aut. Addie farà la sua scelta.
Haruf utilizza uno stile narrativo in cui i dialoghi tra i personaggi sono parte intrinseca dei loro agiti. E così, la scrittura risulta secca e tesa, quasi interamente fatta di dialoghi tra Addie e Louis. E’ una scrittura sincera, in cui non c’è spazio per l’omissione, per il fraintendimento, per l’offuscamento di un'intenzione. Ciò che Addie dice è ciò che Addie fa. E ciò che fa è ciò che dice. Lo stesso vale per Louis.
E’ un libro che a prima vista può sembrare quasi solo abbozzato in quella che, tuttavia, si percepisce come complessità. Una complessità che avrei voluto fosse scavata più a fondo. Ma la scelta di Haruf sembra chiara: sono i piccoli gesti, e le poche parole, a scavare dentro ciascuno dei suoi personaggi per aprire uno spiraglio dal quale esca in maniera potente la loro intimità.
Le atmosfere ricordano molto - per l’attenzione al dettaglio, alla gestualità e alle movenze - quelle di “Carol”, splendido film di Todd Haynes. E il tentativo di girare un film su questa storia è stato fatto: Ritesh Batra ha diretto Jane Fonda e Robert Redford nei ruoli di Addie e Louis. Ma a prescindere da come sia il film, che non ho visto, avrei tanto voluto che lo girasse Krzysztof Kieślowski. Leggendo ho pensato spesso al suo "Film blu".
Ma né lui ne Haruf ci sono più, e questo è un gran peccato.
E’ un libro che parla della solitudine, e che cerca un modo per farvi fronte. E lo trova, non tanto nella mera presenza fisica di un’altra persona, alla quale disperatamente aggrapparsi, quanto nella condivisione e nell’intimità di un affetto.
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