
Michela Murgia - Accabadora
Michela Murgia è stata un’educatrice all’interno dell’azione cattolica italiana, referente regionale del settore giovani, sempre che wikipedia non menta. E Accabadora è una storia anche sull’eutanasia e sull’adozione.
Date queste premesse, ci si potrebbe aspettare una certa visione piuttosto netta delle cose. Se a propria volta si avesse una visione piuttosto netta delle cose. Se ci si aspettasse che l’appartenenza a un determinato movimento - l’Azione Cattolica - implicasse inevitabilmente una presa di posizione dalla parte di un presunto vero e giusto. Ma Michela Murgia non sembra fare un’operazione di questo tipo, uscendo di fatto dalla prevedibilità di certi schemi noiosi, scostando un percorso predeterminato di cieca adesione a una rigida visione del mondo. Dove la visione è cieca non tanto per il suo contenuto quanto per la sua mancanza di critica. E’, invece, proprio una riflessione critica quella che la Murgia ci propone. Ci invita a riflettere sui movimenti interiori che spingono le persone a comportarsi nel modo in cui si comportano. A fare le scelte che fanno. Troppo spesso ci si ferma a giudicare un’azione sulla base di un presunto vero e giusto, senza chiederci come. Come ci sia arrivata, quella persona, a comportarsi in quel modo. Viviamo in una società sempre più intollerante, dove chi osa discostarsi dal sentire comune (il libro è ambientato in uno di “quei posti dove la verità e l’opinione della maggioranza sono due concetti sovrapponibili, e in quella misteriosa geografia del consenso, Soreni era una piccola capitale morale”) - spesso troppo rigido e categorico per assumere le sembianze di qualcosa di sensato -, viene etichettato nella stessa spregevole categoria dell’esecutore dell’azione incriminata. E così, colui che pronuncia un interesse verso i movimenti interiori di un presunto ingiusto viene a sua volta inquadrato come ingiusto. Ci si aspetta da costui un comportamento identico, e per le stesse non interessanti ragioni. Discorso chiuso, che stasera c’è il calcio.
Michela Murgia ci chiede però di non fermarci a ciò che vediamo. Chiede a Maria Listru, figlia adottiva di Bonaria Urrai, accabadora di Soreni, di andare oltre ciò che ha sempre creduto. Le chiede di provare a comprendere il gesto, e forse l’intera vita, della madre. E invece Maria combatte per rimanere ancorata a quel che ha sempre creduto, nonostante Bonaria glielo dica chiaramente: “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata”. Che ha tutto il suono di una parabola contemporanea. Nonostante Andrìa Bastìu, amico e complice di una vita, glielo dica chiaramente: “Sei diventata arrogante con i peccati degli altri. Non ti è mai venuto il dubbio che forse non c’è niente da perdonare? […] Perché sai, ti vedo così sicura del tuo… magari ti sbagli, e in cielo non si giudica come giudichi tu”.
Veniamo invitati a riflettere sul significato della vita e della morte, e del libero arbitrio che pare ci sia stato donato, attraverso una scrittura pomposa e fiabesca, ricca di metafore come le fantasie di un broccato, in cui i sensi vengono costantemente richiamati al lavoro, per comprendere immagini, intenzioni, sensazioni attraverso simboli che li rafforzano, li amplificano e li rilanciano in altre direzioni, come ombre proiettate e ingrandite da un ingegnoso gioco di luci.
Abbiamo quindi una possibilità, una grande occasione: quella di sganciarci dalle nostre più ferree convinzioni, accogliendo nuovi punti di vista sulle cose.
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