Il tempo è un concetto relativo. Affermazione scontata nel 2019, dopo che Einstein ci ha spiegato la sua teoria della relatività e dopo che Eugene Minkowski ha scritto “Il tempo vissuto” in cui ci racconta la struttura qualitativa del tempo e le sue manifestazioni nella psiche. Oggi lo sappiamo, ci crediamo. Ma molto spesso ce ne dimentichiamo. E questo bel video sembra volercelo ricordare.
Ma oggi vi voglio raccontare un storia, che ho imparato leggendo “Sapiens - Da animali a dei” di Yuval Harari. Un saggio bellissimo che ci spiega l’evoluzione dell’uomo, dalla sua comparsa ai giorni nostri.
Una volta il tempo non era relativo. O meglio, lo era ma non poteva esserlo.
Mi spiego: l’agricoltura tradizionale, quella attorno a cui girava l’economia prima della rivoluzione industriale, si basava sui cicli naturali delle stagioni e sull’alternanza tra il giorno e la notte, tra la luce e il buio. Il contadino vi era assoggettato, non poteva sottrarvisi, esisteva un vincolo più forte di quello del sangue tra il contadino e la natura. Il tempo era già relativo, lo è sempre stato, ma l’uomo medio non poteva permettersi di fare amicizia con questa parte di tempo. Per lui esisteva solo quello assoluto, e non poteva essere altrimenti.
All’epoca non esistevano telefoni, radio, televisione, il mezzo di trasporto più rapido era il cavallo, sicché in ogni Paese poteva capitare che l’orario - che solitamente era indicato dall’orologio del campanile della chiesa - differisse anche di venti o trenta minuti da una città all’altra. Che differenza poteva fare? Eppure tutti erano in grado di coordinarsi: bastava seguire la natura!
Poi arrivò la rivoluzione industriale, e con essa la catena di montaggio, la produzione in serie. Successe che divenne necessario che tutti fossero coordinati in maniera molto più precisa che non quanto fossero in grado di fare basandosi sul sorgere del sole. Arrivarono gli orari di lavoro, che prescindevano dall’alternanza luce/buio. E con essi, mezzi di trasporto più veloci: fu così che ci fu bisogno di avere delle tabelle di marcia con orari precisi. Avvenne per la prima volta nel 1847, quando le società ferroviarie britanniche stabilirono che da quel momento gli orari dei treni sarebbero stati stabiliti sulla base dell’orario dell’osservatorio di Greenwich e non più sulla base delle ore delle città locali. Sempre più istituzioni seguirono l’esempio delle società ferroviarie e, nel 1880, il governo britannico fece lo stesso: sancì che l’orario, in tutta la nazione, sarebbe stato lo stesso, sulla base dell’osservatorio di Greenwich. Fu la prima volta nella storia che un Paese uniformava l’orario in tutto il suo territorio. E la popolazione inglese fu la prima ad essere costretta a vivere secondo un orario artificiale.
Tempo assoluto. Tanto quanto quello della natura.
Comunque la si voglia mettere, siamo vincolati a uno scorrere del tempo indipendente dalla nostra volontà: un certo tipo di tempo è assoluto, certo. Ma come come ci insegna la Leggenda del Grande Inquisitore nel cuore de “I fratelli Karamazov” o Jonathan Franzen in “Libertà” o Erri De Luca ne “Il giro dell’oca”, la libertà non consiste nello stabilire le condizioni di partenza. Il tabellone è dato, il dado è dato: a noi spetta la scelta. La scelta di cosa farcene di quel dado, se tirarlo oppure no, se fare una mossa o stare fermi. Ma è proprio la scelta a rendere relativa qualunque condizione. Anche il tempo.
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